Mettiamo da parte le abusate prese di distanza dallo sport del calcio inteso come strumento di distrazione delle masse, come spettacolo pilotato da maneggioni dove gran parte dei risultati sul campo sono stati scritti a tavolino, pilotati se non addirittura costruiti con mezzi truffaldini, come pozzanghera melmosa in cui sguazzano giornalisti privi di dignità e coerenza prima ancora che di minima padronanza delle regole della sintassi, come arena virtuale nella quale milioni di tifosi imbecilli per costituzione o, peggio, per smarrimento di qualsiasi minuscolo barlume di lucidità (confusa e scambiata, in virtù della peggiore retorica e del peggior opportunismo auto-giustificatorio, con la Passione o l’Amore) si battono per interposta persona.
Lasciamo poi a sociologi, psicologi, tromboni e
Severserrellini il compiaciuto piacere di pontificare sul perché certi sport veicolino oceani di emozioni, e quindi di parole, e quindi di interessi economici.
Mi interessa invece osservare il meccanismo che ha portato il calcio moderno, nella fattispecie a quelli che dovrebbero esserne gestori avvertiti e consapevoli, a credere al proprio bluff. Passi cioè il fatto che milioni di poveracci si lascino abbindolare dai loro presidenti, dai loro quotidiani sportivi, dalle loro TV: se una persona sinceramente di sinistra può arrivare a fidarsi di Renzi e del PD, se un’altra magari realmente bisognosa ed in serie difficoltà riesce a credere in Banana o nella sua banda degna di un circo di terza categoria, se qualcuno dotato di raziocinio può prestare ascolto alle parole del bipresidente Giorgio Napolitano e alle sue ridondanti elencazioni di raccomandazioni inutili oltre che tediose ed ipocrite, se si arriva a credere in Vanna Marchi e nelle sue alghe dimagranti, se c’è chi ricorre al mago televisivo che suggerisce i numeri da giocare al lotto, se più di uno sventurato si affida allo stregone che salva da morte certa con la sua cura miracolosa che la medicina ufficiale ed invidiosa si rifiuta invece di riconoscere, se tutto ciò può accadere ed effettivamente accade non c’è da stupirsi che esista tanta gente capace di perdere il sonno per una gara persa, per un arbitraggio forse discutibile, per una palla finita contro un palo, per un fuorigioco non fischiato, per una sostituzione arrivata troppo tardi, per una trattenuta “che era rigore” e per un contatto “che si vede che si è buttato, per un’intervista di troppo o per un autografo negato, per una intollerabile cessione durante il calciomercato o per un prestigioso acquisto che di sicuro farebbe fare alla squadra il salto di qualità di cui ha bisogno.
E al prestigioso acquisto mi fermo. Perchè è poi il punto che mi interessa. Nel senso che, mi ripeto, è comprensibile che un tifoso (inteso anche nel senso migliore, e cioè di sincero appassionato e non di becero, iracondo e fazioso spettatore) si lasci affascinare dalle rappresentazioni virtuali dei calciatori così come sono create dai media. Ma gli addetti ai lavori?
Possibile che anch’essi abbiano perso di vista la sostanza, e non siano più in grado di valutare -sia pure con ragionevole margine di errore- il potenziale degli atleti al momento di dar loro una “
valutazione”in termini tecnici ed economici?
Un inciso.
Un tempo avrei scritto “in termini tecnici e
quindi economici” in quanto le due voci andavano grosso modo a braccetto.
Oggi, invece, dovrei in realtà parlare di termini
tecnici,
mediatici,
politici ed
economici: un calciatore è valutato anche per il ritorno che potrebbe portare in termini di
immagine (contratti pubblicitari, attenzione delle TV, ricchi ingaggi nelle amichevoli, ...) e di
consenso politico, fruibile immediatamente o negli anni futuri (e se il pensiero va all’ormai ex cavalier Patonza o all’indimenticato Bernard Tapie, è proprio ai casi come quelli che mi riferisco).
Fine dell’inciso, torniamo a bomba: possibile che, pur con tutte queste precisazioni e chiarimenti sul fatto che le decisioni siano determinate da molteplici fattori, tanti calciatori discreti o poco più siano rappresentati (ma questo è comprensibile) prima e pagati poi (e questo lo sarebbe assai meno) come se si trattasse di autentiche divinità calcistiche? Presidenti, finanziatori, direttori sportivi e tecnici, si sono tutti ammalati, più o meno all’unisono, di un morbo che impedisce loro di distinguere uno appena bravino da un vero fuoriclasse?
Sgombrerei preliminarmente il campo da immagini nostalgiche e mal sopiti rimpianti verso “il calcio di una volta”, i vecchi presidenti delle squadre non erano più morali o intelligenti dei loro attuali omologhi, ed anche le loro rose erano più ricche di quelle delle rivali in virtù di uno strapotere economico che spesso e volentieri sfociava nell’abuso, nel sopruso, nello “scippo”.
Diverso era però il capitalismo di cui essi erano espressione. Più
imbarazzato nell’esibire il proprio strapotere economico, di solito legato a logiche
manifatturiere, caratterizzato da un’imprenditoria spesso incolta ma non del tutto slegato da logiche di appartenenza sociale e territoriale. Non un capitalismo “buono”, intendiamoci: quello non esiste (al massimo c’è quello cattivo, il che non vuol però dire che tutti i capitalisti siano “cattivi”... spero di essermi spiegato), ma comunque un capitalismo tenuto e rispettare regole e vincoli, regole e vincoli che facevano vedere i loro effetti nel modo in cui le aziende erano gestite e dunque anche sulle società sportive che in quell’orbita gravitavano.
Anche in passato si è assistito a ridicole (e vergognose) aste al rialzo per assicurarsi il cartellino di calciatori non sempre dimostratisi all’altezza di quegli esborsi e dei propri ingaggi, ma è chiaro che l’arrivo di una nuova generazione di capitalisti ha cambiato lo scenario. La possibilità da parte di alcuni presidenti di accedere a quantità enormi di denaro, l’opportunità di indirizzare questi soldi praticamente a fondo perduto nelle società di calcio ha stravolto il senso (già comunque assai alterato; voglio ancora una volta ripetere che il passato prossimo e quello meno prossimo non erano certo delle oasi paradisiache dove, a parità di soldi e di possibilità, i più bravi e i più meritevoli riuscivano a costruire le squadre migliori) delle cose, portando tra le altre cose ad una corsa al rialzo dei prezzi evidentemente slegata dalle effettive doti dei giocatori.
Questa “impennata inflazionistica” ha inoltre causato, come grottesco effetto collaterale, uno sbocciare di figure spacciate per fenomeni sia per il comprensibile interesse da parte dei “venditori” di trarre il massimo profitto da una transazione economica sia per l’interesse degli acquirenti di gonfiare il valore mediatico degli atleti in modo da cercare di trarne comunque il massimo del profitto.
Ed è così che se un tempo -parliamo di una ventina di anni fa o poco più- le cronache sportive si esaltavano per le gesta di un pugno di campioni, oggi assistiamo ad una incessante passerella dove, grazie ad un paio di gare ben giocate o ad una stagione positiva, decine di atleti che una volta avremmo detto
normali diventano costosissime stelle contese a suon di svariati milioni.
I tifosi fessacchiotti abboccano e si esaltano per gente che una volta avrebbe al massimo spuntato mezza paginetta al momento dello sbarco a Malpensa o Fiumicino, e le TV si divertono a costruire format e trasmissioni basate sulla glorificazione del fuoriclasse del momento: quando ci si accorgerà -perchè alla fine le carte bisogna comunque scoprirle- che si trattava di un onestissimo mestierante, la successiva star delle star sarà pronta a riempire nuovi palinsesti e nuove analisi dei plotoni di opinionisti a gettone, per riscaldare il cuore delle folle plaudenti in adorazione.
Gli addetti del mestiere, invece, possono permettersi di sfuggire alle logiche stringenti dei bilanci sempre più in rosso perché o, in un caso, un finanziatore generoso (o una assicurazione amica, o una banca fiduciaria) rifinanzierà le casse vuote o perché, passato il momento di euforia, riusciranno a scappare e a ricollocarsi mezzo secondo prima che i curatori fallimentari arrivino a mettere le ganasce ai calciatori.
Fino a quel momento, però, si continuerà a correre sul filo dell’esaltazione delle doti sovrumane degli atleti, del loro talento cristallino e del loro strapotere tecnico, fisico, e persino umano e morale (perché i calciatori della propria squadra sono anche gli unici ad essere buoni, onesti, generosi, corretti, leali, caritatevoli, legati alla maglia, alla mamma ed alla famiglia).
E tutti ci crederanno. O fingeranno di farlo.
Poi però, una sera di luglio, arriva una strana partita dove una squadra evidentemente mediocre viene umiliata da un’altra magari buona ma nulla più. Dove una serie di eventi probabilmente irripetibili puniscono oltre l’immaginabile la prima ed esaltano la seconda ben al di là di limiti pur evidenti e meriti che non si possono negare. Con praticamente tutti gli spettatori che, ostinandosi a fissare il dito, perdono ancora una volta di vista la luna: un sistema gonfio di soldi magari non proprio sporchi (ma su questo non ci giurerei; ed anzi...) che ha finito col credere alla rappresentazione mediatica che di se stesso ha dato.
Qualcuno invece potrebbe ad esempio chiedersi se abbia senso valutare 50-60-70-80-100 milioni di euro atleti che nelle scorse settimane non sono stati in grado di mettere in crisi una squadra mediocre come quella brasiliana e, più in generale, che sono stati osannati in un contesto che magari non era così probante (mi riferisco al piano tecnico; dal punto di vista tattico il mondiale è stato effettivamente di buon livello), con avversari generalmene sopravvalutati.
Ma, ancor più in generale, qualcuno DOVREBBE cercare di svegliarsi da quest’incubo spacciato per sogno bellissimo, e cominciare a chiedersi se abbia ancora senso rimanere inviluppati in questo meccanismo insensato, in questa spirale di costi immotivatamente crescenti (immotivatamente in quanto l’aumento delle spese non corrisponde in nessun modo ad un innalzamento dei valori tecnici e delle potenzialità sportive) che non cambiano i nomi dei vincitori più o meno predestinati ma al tempo stesso conducono alla rovina gli altri attori della rappresentazione, incapaci -per un tremendo mix di incompetenza gestionale, pressione dei sostenitori per lo più ignoranti come capre ignorantissime, effetti delle varie propagande, commistioni con interessi economici e politici- di tirarsi fuori da una corsa che li vedrà comunque perdenti e di provare ad imporre un nuovo modello. Sostenibile anch’esso, come altri “modelli” che in ancor più elevati contesti vengono invocati in risposta a segnali non meno eclatanti di un
banale 7-1 calcistico.
Ecco quindi che il destino del calcio di essere metafora di altro trova l’ennesima conferma, e la provvidenziale batosta della nazionale carioca diventa senza volerlo la messa a nudo della stortura del capitalismo contemporaneo.
Ma adesso: linea alla seconda semifinale.
[Modificato da Fog 09/07/2014 12:58]
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